Isabella, marchesa di Mantova in quanto moglie di Francesco Gonzaga, incarna la donna politica per eccellenza, cerebrale, calcolatrice, in un certo senso anaffettiva ma capace di proteggere la dinastia, il regno e i sudditi, di conseguenza abile nelle strategie e nelle pubbliche relazioni, e inoltre innamorata dell’arte e del bello, per cui pronta a calarsi nelle vesti della raffinata collezionista. Lucrezia, invece, privilegia le passioni e gli affetti, ma è capace – quando la situazione lo richiede – di trasformarsi in accorta amministratrice di alcune città dello Stato pontificio prima, e di Ferrara poi, nonché in avveduta ed elogiata mecenate. Ognuna, del resto, è la degna figlia del proprio padre. Se la marchesa di Mantova è unaperfettaerede del duca di Ferrara, quell’ Ercole d’Este non a caso detto “il Tramontana” per la sua freddezza e il suo cinismo politico, Lucrezia discende da Alessandro VI, papa sensuale, abile, coraggioso, astuto e spregiudicato, che si dimostra spesso meglio della sua fama.
Oltre a narrare delle due cognate, Alessandra Necci racconta anche dei loro genitori, delle loro famiglie, dei loro mariti, della loro progenie. Ancora, di tutto il meraviglioso mondo delle corti, dei cavalieri, delle dame, degli artisti celebri, degli umanisti, dei poeti, dei letterati, dei musici, degli architetti, degli scultori, dei pittori, che portano nomi rimasti famosi nei secoli. E, in un gioco di cerchi concentrici, parla di sovrani e imperatori, signori e pontefici, capitani di ventura e cardinali, che si intersecano all’esistenza delle protagoniste in un colorato caleidoscopio.
Isabella e Lucrezia, soprattutto, sono lo spunto e in un certo senso il “pretesto” per descrivere tutto il Rinascimento italiano, in un modo obiettivo e approfondito. Un Rinascimento che non è solo “l’età dell’oro” trasmessaci da una lettura troppo agiografica, ma è anche e soprattutto una fase tragica, complessa, densa di contraddizioni e dicotomie. Una fase che dice molto di un Paese – l’Italia, appunto -ricco di individualità a volte straordinarie, ma incapace di progetto comune e quindi impossibilitato a divenire uno stato nazionale.Un’Italia che è la patria di alcuni dei maggiori geni di tutti i tempi – Leonardo, Raffaello, Michelangelo, Pico della Mirandola, Ludovico Ariosto, per toccare campi disparati – ma che non sa trasformare la rinascita culturale in politica, anzi legittima tutti i particolarismi e gli egoismi locali, con il risultato triste e prevedibile di avviarsi a una fatale e inevitabile decadenza.
Fra la fine del Medioevo e l’Umanesimo, la penisola vive un momento di contraddittorio splendore: è ricca (almeno in certe parti), piena di città e paesi splendidi, rinomata per le sue corti e per i suoi artisti, colma di tesori inestimabili, avvolta da una leggenda dorata, e dunque ammirata e appetibile. Al tempo stesso, però, è vulnerabile e divisa, in mano a signori, papi e signorotti che si combattono con ferocia, per cui diviene facile preda degli stranieri che sempre più numerosi varcano le Alpi con i loro eserciti. Sovrani francesi come Carlo VIII e Luigi XII, oppure imperatori come Carlo V, scendono nel Belpaese per rivendicare eredità vere o presunte, si appropriano di terre e città, si alleano pretestuosamente con i vari Signori (anzi, quasi sempre sono chiamati da loro), e rinsaldano il loro dominio sulla penisola.
La cosiddetta “svendita del sistema Paese”, a ben guardare, è iniziata molti secoli fa: all’epoca, certo, gli stranieri si erano impadroniti militarmente delle città e delle terre, mentre adesso c’è una forma di dominio più sottile, indiretto, di tipo economico, finanziario, industriale, ma i risultati non sono poi tanto diversi.